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Baidu, il motore di ricerca cinese è “libero” di censurare i risultati delle ricerche

Motori di ricerca cinesi e libertà di espressione
Motori di ricerca cinesi e libertà di espressione

Motori di ricerca cinesi e libertà di espressione

La libertà non ha confini.

Purtroppo non è lo slogan di una compagnia telefonica, ma il risultato paradossale, e a tratti grottesco, raggiunto nel verdetto di una Corte distrettuale dello Stato di New York.

Il primo emendamento, quello che per gli americani è sacro e che è stato scritto per proteggere la libertà di espressione, da qualche giorno protegge anche il diritto di Baidu, noto motore di ricerca cinese, di censurare i risultati delle proprie ricerche.

La decisione, stando a quanto riporta l’agenzia Reuters, è uscita al termine di una causa intentata da un gruppo di attivisti cinesi pro-democrazia e residenti negli Stati Uniti.

Gli attivisti contestavano (e continuano a contestare) al gigante tra i motori di ricerca della Repubblica Popolare Cinese, appunto Baidu, la repressione della libertà politica e, nello specifico di aver creato un algoritmo per la restituzione dei risultati che impedisce agli utenti americani di Baidu di visualizzare articoli, video e altre informazioni sul movimento per i diritti civili e la democrazia in Cina.

Questo è quello che normalmente subiscono, ogni giorno, anche circa mezzo miliardo di utenti cinesi di Baidu, ma loro nemmeno pensano di poter aver una corte di giustizia disposta ad ascoltarli.

Magari, nella terra che si fregia con orgoglio delle sue libertà,  qualcuno pensava di trovare un orecchio amico…

E invece, nemmeno a Manahattan, il cuore pulsante della city – simbolo e icona liberal, trova spazio una legittima richiesta di cittadini americani: i promotori sono otto americani di origine cinese, tra cui alcuni scrittori e video-producer, censurati ingiustamente da Baidu rispetto ai loro documenti in rete.
Gli stessi documenti hanno invece fatto il giro degli States, proprio grazie a Bing e Google…

La sentenza del giudice Jesse Furman potrebbe sembrare una gag di una vecchia commedia di Woody Allen (tanto per stare in tema), ma purtroppo parole e timbri sono veri.

La richiesta di ripristino della liberta di espressione (insieme ad un risarcimento di 16 milioni di dollari per i danni causati al movimento per i diritti civili) è stata respinta proprio sulla base dello stesso primo emendamento.

“I risultati prodotti dal motore di ricerca Baidu, così sentenzia Furman, sono protetti dalla Costituzione Americana e dal suo primo emendamento che garantisce la libertà di espressione”.

Secondo Furman i risultati di una ricerca sono come una valutazione editoriale (?!) e, in quanto tale, deve essere espressa con la massima libertà (anche quella di calpestare gli stessi diritti di libertà).

E chi glielo spiega adesso al giudice Furman cos’è un algoritmo?! Sarebbe un concetto troppo democratico da comprendere, forse…
L’avvocato degli attivisti, Stephen Preziosi, è comunque fiducioso nell’appello: fossi in lui chiederei una consulenza e una perizia tecnica a Matt Cutts, capo della Search Spam di Google.

Solo lui potrebbe spiegare ai giudici di Albany, quanto sia difficile un intervento manuale sui risultati di una ricerca per decidere cosa mostrare e cosa no: un algoritmo spruzza informazioni a getto continuo come una manichetta anti-incendio e, se funziona quasi alla perfezione come Google, neanche l’esercito (poco) rivoluzionario del popolo cinese riuscirebbe a fermarlo.

A proposito: dalla Cina e da Baidu nessun commento. E in che modo si potrebbe leggere forse, dal momento che pure Google ha abbandonato a se stesso il suo ramo cinese?!